Segue dal post
precedente…
C’è dunque questo fatto:
che ogni tanto mi piace lanciare provocazioni apodittiche sul mio profilo
Facebook e, come cantava Jannacci, stare a vedere l’effetto che fa. Perché
voglio vedere il cervello all’opera.
Spesso ne rimango un po’
traumatizzato perché sovrastimo la mia abilità di aforista e perché lo scritto in
rete nega lo sforzo ironico. Dovrei attivare una app che pone il lettore in
irony-mood o premettere, ai sensi di legge, a certi post un comunicato del tipo
“ATTENZIONE: il messaggio che segue va letto e compreso alla luce della
(auto)ironia descritta nella legge 347 del 1985 e regolata dal garante della
comicità e del sarcasmo. Si precisa che in nessun modo il motto o battuta che
segue intende offendere alcuno e tantomeno deridere le personali credenze di
tipo politico, religioso, culturale o fare leva su discriminazioni di tipo
razziale, di preferenze sessuali, di luogo di nascita e così via. Pertanto ci
si dissocia fin da ora da letture o condivisioni che neghino quanto qui sopra
affermato”.
Come vedete un po’
complesso…
Ora capita che nel postare
ciò che ti stimola ti imbatta in fenomeni di trollaggio proprio costruiti sulla
propria vita. Il più triste che mi è capitato è quello di una persona che
contestava un decalogo sulla relazione coniugale felice affermando che la
coppia non può essere felice per definizione e che quindi quelle affermazioni
erano false e cattive. E tutto perché questa persona aveva vissuto una
esperienza matrimoniale molto dolorosa e triste.
Credo che sia lo specchio
di quanto questo egoreferenzialismo abbia inquinato le nostre vite: tutto è
noi, tutto è la nostra esperienza e a partire da questa produciamo valori e
metri di misura.
Io non ho avuto la
felicità: nessuno deve averla e se qualcuno la professa e la sperimenta lo fa
contro di me, per torturami.
È così che ci portiamo l’inferno
in casa.
Nessun commento:
Posta un commento