L’ha
detto il nostro parroco, e mi è piaciuto subito, anche se ho faticato un po’ a
calarlo nella concretezza quotidiana. No, non per scetticismo: per pavidità.
Che
il cristiano è come il messaggero di quei secoli in cui il tempo reale era la
stagione, che scandiva una dolcezza del tempo nascosta dentro i rigori del
clima. Quando cioè le notizie respiravano i mesi e non i millisecondi: quando
il cellulare era una aggettivo di là da venire e per coprire la distanza che
separava la rassicurazione dal timore ci voleva uno come Filippide, un
emerodromo che recasse notizie correndo da un capo all’altro della vita delle
persone.
Oppure
un viandante di passaggio.
Ecco:
il nostro compito è portare notizia da casa. Rassicurare lo straniero in terra
straniera, perché questo è quello che siamo in fin dei conti come ci ricorda
anche il Sommo nel Purgatorio –per ora letterario, per quello reale si vedrà-
quando dice “pellegrin noi siam come voi siete”.
Il
nostro compito è di portare notizie che spalanchino il cuore, che attingano
dall’essenziale della verità e riportino quella delicatezza colorata di
intimità che solo le notizie da casa hanno: “la mamma ti saluta e ti dice che…”
“la cugina si è sposata” “tuo fratello ha avuto un bambino” che poi sono la
vota dei santi.
Se
ci riusciamo, se siamo realmente capaci di far ricordare questa nostalgia per
una famiglia che si è in qualche modo abbandonato per cercare fortuna, qualcuno
come il figliol prodigo, altri come l’emigrante che cercava lavoro, taluni con
la fuga del prigioniero altri quella del disertore, tutti comunque scagliati
lontano da chi li ama senza riserve, allora potremo dire di aver assolto al
nostro compito primario: quello di riverberare, per quanto con eco stonata,
come luce smorta e tremolante, quell’amore infinito che il Padre ha per ognuno
di noi.
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