apparso su La Croce del 17 febbraio 2015
I precedenti articoli si trovano qui
I media e le parole (versione ufficiale)
Il furto delle parole (extended version)
Le parole tra noi leggere
And then there were three
C’è saggezza nelle parole perché prendono la loro origine
dal Logos che tutto ha creato.
Ci credo e lo affermo, con le parole e spero con la vita.
Perché il dramma della nostra società è che proprio dove pensavamo che l’esponenziale
crescita delle notizie ci avvicinasse, in realtà il rumore di fondo di dati
inutili ha separato sempre di più. La tragedia della comunicazione sta nella
difficoltà crescente ad avvicinare le intenzioni di chi comunica con
l’interpretazione di chi ascolta.
E giù a moltiplicarsi gli interventi sulle differenze di
azione e comprensione di donne e uomini, corsi e articoli sugli stili
relazionali, Chapman che illumina –e ci campa, per dirla tutta- con i linguaggi dell’amore.
Sentiamo il bisogno di riavvicinarci trovandoci, volenti o
no, dentro a Babele, proprio alla sua radice, dove il male assorda impedendo di
ascoltarsi. E ti lascia sporco di pregiudizi, che hai respirato così a fondo,
da non accorgerti più che te li porti addosso come un marchio. Come quando vai
in montagna e ti accorgi all’improvviso dell’auto che ti passa accanto perché
puzza, e allora ti viene in mente che in città quell’odore non lo senti più. E
capisci.
Così.
Amo le parole, la loro storia, il loro senso profondo, a
volte nascosto dentro una etimologia che scolora quando invece potrebbe
illuminare.
Ascoltate la dolcezza di “quiete”
che già mormora come un ruscello al tramonto, o perdetevi nel mormorio di “effimero” la cui radice greca ci ricorda
che dura un giorno solo, o quella “lievità”
che tutte le volte mi richiama il leggiadro verso di Cristina Campo: “con lieve cuore con lievi mani la vita
prendere la vita lasciare” che potrebbe essere il ritratto di Paola
Belletti. Cogliete la forza di “sghembo”,
il suono di “scaglie”, la soavità di “riposo” e assaporatene il senso per
poterlo restituire a chi amate nel momento opportuno, invece che assordarli con
tvtb e altri intrecci delle dita che sottraggono invece che lenire il cuore.
Amo quegli scrittori che scolpiscono storie accostando
parole selezionate con cura, perché ognuna vale il senso che porta, perché non
esistono sinonimi, ma sfumature (e non di grigio per favore, che non è mai
stato peraltro un colore che attira e affascina. E che oggi lo sia diventato la
dice lunga sulla nostra società tiepida e sazia e quindi disperata).
Adoro Dostoevskij dalla parole febbricitanti, intrise di
pietà e terrore, mi beo di Jean Giono del quale ho gustato in lingua originale Que ma joie demeure nella mia
adolescenza inquietamente banale, stravedo per Tolkien, che partendo dalla
parola ha creato un mondo dove ogni particolare induce a guardare il cielo.
Ammiro il primo Baricco che spremeva il piacere della saggezza e la comprimeva
nella frase. Mi piace D’Avenia che oltre al gusto insacca nelle sue storie il
senso.
Mi affascina Montale con quel suo squadrare la vita con
parole aguzze come cocci di bottiglia; sono un devoto di Dante capace di
squadernare il senso, di avvolgerlo in rime aspre e chiocce da far tremare vene
e polsi eppure di illuminarti dentro, come amor che a nullo amato amar perdona.
Tra tutti uno in particolare porto in cuore, anche perché
l’ho conosciuto di persona e mi è stato maestro quando volevo tirare fuori dal
cassetto storie che non hanno mai superato la scrivania: Giuseppe Pontiggia,
rude, ruvido, a volte irritante, sempre lucido, insuperabile in Nati due volte, capace di aforismi
brucianti raccolti in Le sabbie immobili da
dove estraggo la citazione che mi fa svoltare pagina e cambiare passo: “Lo dica pure con parole mie”.
Ecco qua, quali sono le mie parole?
Quando ho proposto il primo articolo a Mario non credevo di
sollevare un movimento d’opinione. Invece è andata così: c’è chi mi suggerisce
parole nuove, chi condivide articoli su un singolo vocabolo chi ricorda le lezioni
americane di Calvino, tanti che si congratulano. Così da spingere me a scrivere
ancora, l’editore a darmi spazio, e la creatività a pensare che chissà si
potrebbe immaginare un bel e-book sul tema da regalare agli abbonati o a chi
dimostra particolare affetto per il quotidiano…. Sai mai?
Per cui vi dono come sempre le mie parole che estraggo dal
tesoro di cose antiche per renderle nuove
Complicità
Appartiene a quelle parole, generate dal male, oggi
sdoganate proprio in virtù del fatto che si tratti di vizi. Complicità è il
lato depravato dell’amicizia: evoca Lucignolo, fiancheggiatori, terroristi.
Eppure oggi la si applica a coppie indaffarate a fare sesso: non a caso. Amarsi
richiede amicizia, e questa, a differenza della complicità, è volta al bene.
Esperienza
Mostro dalle molte teste, usato tutte le volte che si cerca
un alibi come oggetto del verbo fare,
mentre dovrebbe essere accompagnato da avere.
Fare esperienza è spesso complice di fare quello che si vuole: si millanta che
senza aver prima esperito non si può giudicare o agire. Se ne dovrebbe dedurre
che i magistrati sono pluricriminali, i medici reincarnati da mille malattie,
gli insegnanti esploratori e antichi greci e i giornalisti…
Che poi oggi l’uomo d’esperienza non è colui che sa perché
ha già fatto, ma colui che decifra perché attinge dalla saggezza per risolvere
un problema mai visto prima. E quindi spesso evita di farla quella esperienza.
Coscienza
La si invoca come complice (anche lei) del fare quello che
si vuole (no, non è un errore di copia/incolla) adducendola come giudice
supremo delle proprie azioni. Sì, va bene, ma questa è la coscienza formata,
che studia e si impegna per capire che cosa è bene e che cosa è male, non una
pagina bianca sulla quale l’istinto scrive volta per volta le leggi che gli
pare. Quella è incoscienza, e si sa conduce la gioventù bruciata a sfracellarsi
frontalmente come James Dean.
Contagio
Ogni epoca l’ha fuggito come la morte, di cui era vessillo e
scudiero. Le facce che assumeva hanno ispirato scrittori d’ogni epoca, e hanno
scatenato la follia umana contro coloro che, si diceva, lo propagassero. Oggi,
epoca in cui male e bene si confondono se non si scambiano di posto, diventa
untore di novità e creatività, di progresso e piacere. E’ che non sanno l’inglese
e prendono cross contamination per cross fertilization. Sarà mica perché
fertilizzare ricorda la generazione di nuove vite?
Colpa
Si afferma per dire che nessuno ce l’ha. O che è a monte. La
si ricerca in quei casi in cui, verosimilmente, nessuno ce l’ha, perché se si
trova un colpevole non ci si ricorda della fragilità dell’uomo nel creato e
della sua assurda pretesa di farsi Dio. Stangerup la invocava per affermare la
libertà e la propria individualità. È segno del nostro essere ed esistere e, quando
è felice, cammino per liberarsi del male, sempre che se ne voglia assumere il
carico leggero, svuotato di peso dalla richiesta di perdono.
Errore
Mai umano, sempre tecnico. Generalmente la ragione per la
quale i cattolici mettono al mondo dei figli. Nessuno oggi ritiene di vagare
nelle nebbiose pianure dell’ignoranza per cui lo si associa al numero 404 per
allontanarsi il più possibile dall’1 che sono io. Se riflettessimo sul fatto
che l’errare è ciò che rende umani, invece che inseguire lo zero difetti,
cercheremmo le radici dell’errore e non di eliminare l’errante, cosa di per sé
tanto arrogante quanto imbarazzante.
Umiltà
La virtù essenziale dell’ambizioso, che se fosse anche
presuntuoso sarebbe destinato al fallimento. Per lunghi anni parola che non si
poteva pronunciare nella buona società fatta di uomini che non dovevano
chiedere mai e di donne che si innaffiavano di Egoiste e Arrogance, recuperata
dalle multinazionali che cercano persone con gli attributi e quindi proprio per
questo capaci di apprezzare un feedback –termine
che nella sua esoticità pare attenuare fino a rendere piacevole il palliatone, spero figurato, che Totò eleva dal dialetto napoletano a gag
cinematografica- che li migliori
grazie ad una eccellente correzione manageriale, pratica mutuata dalla
evangelica correzione fraterna. Umile è chi sa riconoscere qualche cosa di più
grande e qui forse casca l’asino e tutto il bestiario di chi pensa che di
fronte all’uomo ci sia solo l’illimitato limite delle sue voglie.
Famiglia
Parola cestino: tutto quello che fa comodo metterci dentro,
ce lo si butta come dentro alla magica borsa di Mary Poppins, la quale che cosa
fosse la famiglia lo sapeva bene visto che lo insegna molto bene a mr. Banks e
signora. La Costituzione la caratterizza società naturale fondata sul
matrimonio e così facendo ne riconosce la primogenitura rispetto allo Stato. Se
ci fosse tra noi Gaber avrebbe già sparato una serie di stop! chiedendo cosa
sia matrimonio (ma l’abbiamo già detto) natura (fatto!) e società. Si dice che
la famiglia è la culla di tutti i mali e covo di omicidi e violenze, ma non si
ragiona mai con quale aggettivo qualificarla, che sarebbe la cosa più
importante. Perché ogni società è ordinata ad uno scopo comune, che dovrebbe
essere un bene per tutti, c’è da chiedersi se questo sia chiaro e se l’assenza
di questa finalità trasformi la coabitazione in famiglia. Ho il terrore di no.
Coerenza
Da manipolare con cura perché è lama a doppio taglio che
penetra fino al midollo ed è facile, camminando su questo sottilissimo filo
piombare nella testardaggine così come nella volatilità di chi sale su tutti i
carri. L’etimologia ci rende un fondamento compatto, intessuto, sul quale
crescere, che non trascina al fondo come sabbie mobili. Certo, richiede costanza
di giudizio e volontà. Facciamo cascare un altro asino.
Cattolico
Deve essere adulto, altrimenti è tradizionalista. Curioso
che ci sia qualcuno che ami il primo aggettivo, affiancato ad una religione che
afferma, a chiare lettere, che il premio sarà di coloro che si fanno bambini.
Ancora più curioso che più che il sostantivo ciò che sbatta in pagina come
nella vita sia l’aggettivo, spesso estratto dal linguaggio calcistico
(rigorista, ultà…) con intento giudicante, anzi condannante. Ma non eravamo
tutti #charlie?
Rispetto
Sempre dovuto, mai dato. Come la sensibilità, che in genere
si arrogano coloro che definendosi tali non intendo dire che sono pronti a
spendersi per gli altri, ma che sono pronti a ritenersi vittime di infiniti
torti.
Patto
Irreversibile. E quando mai? Eppure ciò che caratterizza
questo rispetto al contratto sta proprio nel fatto che i contraenti del secondo
non cambiano, del primo sì. Diventando alleati, coniugi, parenti. Per sempre.
Quindi c’è da chiedersi perché usiamo questi termini (patto e contratto) come
sinonimi. E il matrimonio, che facendo di due una carne sola così tanto da
generare vita nuova cambia per definizione le persone, come fa ad essere preso
per contratto, come quello che lega un calciatore alla società sportiva e che
comprende ab ovo la clausola rescissoria? Finisce che in Italia l’unico patto
irreversibile è quello, contrattuale, dell’articolo 18.
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