Apparso su LaCroce quotidiano di martedì 10 marzo 2015
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Dammi tre parole: no, non sole, cuore e amore.
Diritto alla felicità.
O al lusso. O all’auto più rombante che ci sia. O a non
chiedere mai. O ad amare chi voglio, come voglio. O ad avere un figlio, un
marito, una moglie, un compagno. Un conto in banca.
È tutto spiegato qui. Il dolore del mondo è tutto qui.
Perché questo diritto è falsità.
È oggetto delle profonde e urticanti riflessioni di
Berlicche, che dissacrano la politically correctness rivelandone la vera fonte:
l’odio profondo per tutto ciò che è umano.
Perché questa aspirazione alla felicità ce l’abbiamo sì, ed
è in sé buona, è l’eco di quella condizione paradisiaca che i progenitori ci
hanno rubato barattandola con il proprio egoismo, quel sentirsi divinità (eritis sicut dei) che a tutti
fa piacere –eccome, confermo, fa piacere e si nasconde nei mipiace su Facebook
e nelle persone che ti vogliono incontrare quando scendi in città, un po’ come
nella vecchia America “ho una buona notizia da darti! Indovina chi è arrivato
in città?”- e che ti spalanca l’abisso: quello del dolore senza soluzione.
Ma la felicità è una conquista, non un diritto: il secondo
te lo danno a gratis, è implicito; la prima è un percorso, una sfida, un
viaggio che nell’andare ti migliora, come tutti i romanzi di quest, di ricerca,
di maturazione illustrano alla perfezione.
Infatti questa felicità qui nel mondo chiuso su se stesso,
privato di cielo, rinserrato come una di quelle sfere d’acciaio che trovi sui
banconi delle colazioni negli alberghi, che si chiudono a volta per tenere
calde uova e bacon, e che sembrano un sepolcro che rabbuia l’esistenza.
In un mondo così, senza orizzonte, senza verticale, come fai
ad essere felice?
Infatti scatta il nichilismo automatico, la lotta per
brandelli di godimento che ci scatena gli uni contro gli altri: “homo homini
lupus”, “l’enfer, c’est les autres”. Guarda a caso tutte affermazioni partorite
da uomini senza fede e senza speranza.
Questa assurda ricerca di auto-felicità, che come tutte le
cose fatte da soli producono tristezza, sorta di masturbazione intellettuale,
si compie nell’atto di odiare. Ti guardi in giro, leggi di politica, filosofia,
sport, costume, cultura e vedi solo gente che urla, che sparge violenza, perché
in questa opposizione crede di affermare se stesso e i suoi valori. È possibile
che oggi la politica sia solo contro e non a favore di un bene comune? Che si
urli invece di proporre? Che sia negazione e rifiuto?
L’ideologia è una brutta bestia, o peggio ancora: è una
brutta patologia perché ti obnubila. Ti stronca la verità, ti fa vedere solo
quello che vuoi vedere, in genere nemici cattivi ovunque. Per un martello tutti
sono chiodi. E come fai poi ad essere felice?
Ma il dolore non è finito. Né la violenza.
Una felicità che si intenda racchiusa in un universo
popolato da individui gonfi di diritti e di libertà, e privi di verità e
responsabilità, nega il perdono. Non c’è nessuno a cui chiederlo perché non c’è
nessuno che può dartelo, tutti presi come siamo a fare e dire invece che
ascoltare ed accettare.
Ecco perché dà così fastidio la sottomissione alla Miriano,
che poi è sanpaolescamente cattolica: perché costringe a mettere da parte l’io
per fare spazio al tu, e questo è davvero terrorismo per la cultura di oggi, è
un reato che non ammette perdono perché è come la bestemmia contro lo Spirito
Santo.
Non solo non c’è nessuno che perdoni ma pilatescamente non
c’è nulla da perdonare: se devo essere felice per forza a modo mio, se tutto è
lecito, tranne vietare, se tutto è suggerito, specie il piacere spinto, in 50
sfumature di tristezza mascherata, allora ogni cosa che faccio è giusta e ogni
cosa che faccio mi qualifica.
Io non sono più io, ma sono ciò che faccio: siamo andati
oltre Cartesio, sia arrivati al “opero ergo sum: ergo sum quod opero”.
Mettiamo insieme queste tre cose:
a) devo cercare la felicità a tutti i costi, con i miei
mezzi e i miei desideri,
b) quello che faccio è giusto in sé perché non c’è verità
c) io sono quello che faccio, la mia storia, le mie vicende.
Che dramma della disperazione ne nasce! Prigionieri dei
nostri errori, inconfessabili in quanto imperdonabili in senso pratico non
ontologico, finiamo per vedere la realtà attraverso una lente deformata
forgiata dal demonio. La realtà siamo noi e tutto deve uniformarsi alla nostra
visione.
Ecco perché oggi è impossibile ragionare ma si finisce
sempre sull’emotivo e sul personale, perché questo è l’unico piano che il
mainstream ora ammette. Love is love. Istinto rules perché la felicità è il
piacere.
Peccato non sia così, come dimostra l’onda di disperazione e
nichilismo, di depressione apparentemente invincibile.
Peccato che questa discesa sul piano dell’emozione come
unica verità scateni dolore e conflitti senza fine.
Perché se io devo –verbo che impone obbedienza e
sottomissione (ma va? Il contrario di quello che affermano!)- essere felice
allora tutto ciò che si contrappone –attenzione, non ho detto oppone- a ciò che
faccio/sono è da combattere in quanto mi nega questa felicità.
Sei un figlio indesiderato? Sei un coniuge stanco? Sei un
idea difficile? Un lavoro faticoso? Un oppositore politico che non riesco a
convincere? La voce della coscienza che comunque non tace mai? Ti spazzo via.
Ti spezzo. Ti cancello fisicamente.
Infatti questa presunta felicità impone la perfezione,
altrimenti come posso assomigliare ai divi di Hollywood (che poi magari si
drogano, si sparano o si ammazzano a sorsate di farmaci, proprio quelli che
sembravano i più allegri, capitano oh capitano) o ai cantanti o a chi rifulge
di una perfezione plastica e divina?
E siccome nel nostro piccolo sperimentiamo la durezza della
vita, la fragilità, la fatica nell’amare, la debolezza delle relazioni, le
speranze evaporate quando non esplose, la sfida di fine mese, allora ci
rifacciamo cercando di eliminare a colpi di roncola chi sembra porsi sul nostro
cammino.
Non ricordo chi aveva espresso con grande lucidità il
meccanismo che porta ad espellere le virtù e i virtuosi da questa società.
Diciamo che sia virtù scalare la montagna, con fatica. La
logica che finisce per percorrere chi non si sente in grado di scalare la
montagna è la seguente:
a) che
bello che tu scali la montagna e io no
b) ci
resto male se tu sali la montagna e io non ci riesco
c) salire
sulla montagna è stupido
d) salire
sulla montagna fa male a te
e) salire
sulla montagna fa male a me
f) salire
sulla montagna è una aggressione fascista contro la mia libertà di non salire
sulla montagna per cui te lo vieto con la forza.
Nella vita capita allora che giudico quello che fai e dici
con le mie categorie, con ciò che mi è capitato, che non chiamo mai male o
dolore, perché se riconosco il dolore o peggio ancora il male emetto un
giudizio su me stesso, sulla mia vita e questo non si fa mai, perché poi ho
bisogno di sentirmi perdonato. E nessuno può farlo.
(Ce l’ha raccontato crudelmente Stangerup nel suo “L’uomo
che voleva essere colpevole” dove l’assassino che cerca redenzione tramite
perdono si sente soltanto giustificare: il suo atto è conseguenza
dell’ambiente. Ma in questa forzata innocenza, che priva del rimorso e del
perdono, l’uomo conosce solo l’infelice disperazione).
Quindi conformo la realtà alla mia esperienza. La fedeltà non può esistere, tutti gli
uomini sono farabutti e maniaci, il sessismo è una malattia, chi insulta
Balotelli è un razzista, come fa quell’imbecille di Paola Belletti a non aver
abortito (la sua mirabile paginata su questo argomento va letta e riletta ogni
sera come esame di coscienza e preghiera!), se ti mette la pomata sulle gambe
tua moglie è una schiava, la mamma che fa da mangiare per la famiglia è preda
della sindrome di Stoccolma, cambiare amante una volta alla settimana è la
corsia preferenziale per la felicità e giù con altre banalità del genere.
Per non parlare di quando questa malattia si impossessa di imprenditori
che sanno tutto loro, non sbagliano mai, sanno come si deve fare e perché e
così via.
È la patologia del secolo, che va curata a dosi massicce di
umiltà –ricordate cosa scrivevo in precedenza?- ossia quella virtù capace di
ridare senso alla mia vita mettendo ordine e restituendomi la possibilità di
essere davvero felice, perché ora so a chi obbedire e a chi e perché stare
sottomesso.
Felicità: il percorso che mi conduce sempre più vicino a ciò
che devo essere in quanto creatura. Meta che ricolma di gioia e serenità chi la
sta cercando, anche a tentoni, così come il camminare verso Santiago innalza
l’animo ai pellegrini, e li rende lieti per ogni passo che fanno e ogni cosa
che vedono anche se sono lontani da Compostela.
Umiltà: riconoscersi parte di un tutto e non pretendere di
esserne il centro. Capire che non si può essere felici da soli, e che per
esserlo bisogna imparare ad ascoltare e pronti ad imparare ad ogni passo,
perché la strada è lì per insegnarci qualche cosa e nella fattispecie come
essere sempre più aderenti al progetto di Dio su di noi, al nostro nome.
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