Pubblicato su LaCroce quotidiano in data martedì 24 marzo 2015
Altro giro, altra corsa, altro mito da smentire. La forza
dei falsi miti di progresso si basa sulla confusione logica, come abbiamo visto
la scorsa settimana a proposito del consenso.
Si basano sul cambio di prospettiva, di registro. Lo so che
il direttore non ama l’autoreferenzialità, e ha ragione, ma non posso non
citare l’articolo di Giuliano Guzzo a proposito dell’eutanasia del 20 marzo
scorso in cui svela questi meccanismo di occultamento linguistico. Ecco, dentro
queste manipolazioni del pensiero, questo mescolare istinti e ragione, questo
lavorare sull’emotività per nascondere la logica, stanno gli attacchi dei falsi
miti del progresso.
Vorrei condividere con voi oggi altre riflessioni su un
altro dei vessilli innalzati per sostenere le derive alla verità.
Il mito in oggetto è “che male ti fa?”, speso fin dai tempi
del referendum sul divorzio dove il mantra era sostenuto da “non per te ma per
chi soffre”.
Andiamo per gradi.
Mi trovo a parlare con amici su come razionalizzare una
provocazione trovata in rete: una coppia omosessuale si bacia in una foto da
romanticismo cinematografico e una grande scritta supplica: “ma che male ti
fanno?”.
Già, mi chiedo, che male mi fanno? Sento che c’è qualche
cosa che non va, ma sentire non va bene. Potrebbe essere una mia fissa, essere
io nell’errore. Ne parlo con loro e chiedo di aiutarmi a razionalizzare il
tutto, senza però nominare Dio, che l’asso non funziona in questo caso. Se ti giochi Dio sei fregato: basta
risponderti “eh beh, ma io non credo, io non penso ci sia Dio per cui questo
tuo ragionare per me non vale, per me non conta”. Ed è questa posizione che non
fa una grinza, che non si può confutare.Per cui Dio fuori dal tavolo, la
riflessione deve stare in piedi da sola.
Non se ne cava un ragno dal buco. A me non fanno male. Non
si riesce a trovare perché invece dovrebbero farMI male.
Qualcuno dice: se poi si fanno un figlio, allora… Sì, va
bene. Non dico altro perché qui su LaCroce questo è un tema ben noto.
Ma non fanno male a me, e poi si parla di amore, di love is
love, non di adozioni.
Dice: sì, ma poi, da cosa nasce cosa… va bene, ma andiamo
avanti piano, un passo alla volta. Se manca il fondamento iniziale… se non
riesco a spiegare che male mi fanno?
Niente, gira e rigira non si esce.
Non mi fanno male. Vai a vedere che alla fine hanno ragione
loro.
Poi, lenta, affiora un dubbio, un’idea si fa strada.
La domanda non ha risposta perché è la domanda che è
sbagliata.
Non è ciò che mi fa bene o male ad essere importante, ma ciò
che è giusto o sbagliato ad essere importante, le conseguenze di quello che
accade. Non sono io al centro del discorso, la mia ferita, ma il senso della
cosa, il bene o il male. La verità.
La domanda è sbagliata perché sposta l’attenzione dalla giustizia
al piacere, al gusto, all’interesse personale.
Se un imprenditore corrompe un funzionario a me che male fa?
Nessuno.
Se un fornitore corrompe un buyer privato a me che male fa?
Nessuno.
Se un amico pianta la moglie e se ne va con un’altra a me
che male fa? Nessuno.
Se un adulto ha un rapporto consenziente con un minore a me
che male fa? Nessuno.
Perché non è del male a me che ci deve fregare qualcosa, ma
dell’essere buono o cattivo in sé.
E il ragionamento è tutto diverso. Difficile rispondere in
140 caratteri, d’accordo, ma si deve ribaltare la vicenda.
Intanto rispondendo a una provocazione come quella in questo
modo: “ma tu ciò che va fatto o non fatto lo decidi sulla base del male che fa
a te o sulla giustizia?”
E quindi spostare il discorso, parlare di questa, di
giustizia, di verità.
Perché se andiamo sul piano dei sentimenti abbiamo perso.
Prendiamo la vicenda del divorzio, che poi il meccanismo con
il quale hanno demolito il senso e la verità è sempre quello: partire dai casi
estremi facendoli diventare normali. Ma “normale” è diverso da “consueto”
innanzitutto e poi l’estremo non è neppure “frequente”.
L’argomento è semplice: guarda lei come soffre, vuoi negarle
la possibilità di essere felice come lo sei tu che non hai bisogno di
divorziare? Come puoi negarglielo? Che male ti fa?
E si nega, si nasconde, come il cambio di paradigma, perché
questo è, porta conseguenze devastanti.
Vediamolo da due angolature a partire dal divorzio e poi torniamo
al primo punto.
Il divorzio accettato come rifugio estremo da un male
insopportabile è diventato oggi divorzio breve, e ha trasformato il matrimonio
da patto a contratto.
C’è un abisso tra queste due situazioni: la seconda è un
accordo che non modifica i contraenti. Sottoscrivere una assicurazione, comperare
una macchina, abbonarsi a una pay tv non mi cambia, non interviene sulla mia
natura.
Sposarmi, stringere una alleanza, battezzarmi invece sì:
perché è un patto, un accordo che cambia ontologicamente i contraenti. Non
siamo più quelli che eravamo prima.
Se il matrimonio è un contratto cambia tutto. Ma vuol dire
negare che io sono differente, che non sono più me, ma noi, un noi così potente
da dare origine ad un nuovo io, una nuova creatura.
Vediamo le conseguenze sulla società: sapere che ogni
matrimonio ha una via d’uscita anche rapida ha dapprima accelerato e
semplificato la pratica matrimoniale. Dai che ci proviamo, se non va… Questa
pratica ha finito per far perdere di senso al matrimonio: che differenza c’è
tra sposarsi e non farlo? Tanto se voglio cambiare… Anzi non sposarmi mi
facilita le cose.
Perché ci si sposa? Per le garanzie legali in caso di
abbandono? Perché c’è la cerimonia e i regali? O perché costruiamo insieme una
famiglia per sempre?
La negazione di un senso “per sempre” ha modificato l’attenzione
verso il matrimonio: essendo contratto posso decidere se e come sottoscriverlo
e come rescinderlo. Non è un caso che si fissino clausole paragonabili a quelle
che legano gli sportivi alle loro squadre! Abbiamo modificato in profondità il
senso dell’amore: da donazione a te, a interesse per me. E questo non è più
amore, è egoismo. È sesso. Diciamolo.
Cambiare i paradigmi ha conseguenze, non facciamoci
intortare da questa menzogna del non ti fa male. Sì, me ne fa perché cambia la
realtà. Ogni novità la cambia e in profondità.
Nella sua banalità pensate alle innovazione tecnologiche: il
telefono cellulare, i social media –che male ti fanno?- hanno modificato
profondamente la cultura, la società, le relazioni oppure no? Eppure sono uno
strumento, non una modifica di un comportamento.
Tutto ha impatto: è di questo che vogliamo ragionare non
dell’emotività.
Che cosa comporta la sessualità tra due persone del medesimo
sesso, perché di questo stiamo parlando non di altro, in che modo impatta sulla
società, sul futuro, sulla verità? È questa la domanda da farsi e se non c’è
risposta allora vuol dire che abbiamo sbagliato tutto, che questo non un mito falso, ma un progresso sano.
Se invece, come spiegano da tempo in molti, qui ad esempio,
con razionalità, con dovizia di dettagli e studi, con applicazione rigorosa,
con impegno e serietà, se invece ne discendono conseguenze radicalmente gravi,
male in sé, danni profondi, ferite insanabili come quelle lasciate da divorzio
e aborto, allora possiamo dire che si fa male anche a me, ma non perché io sia
fissato e presuntuoso, ma perché quel presunto amore, quella pretesa di
relazione, va contro la giustizia e la verità.
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