Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

lunedì 26 dicembre 2011

Capire e comprendere non sono la stessa cosa

Lampi di blog: le ristampe della prima stagione




Qui non è tanto una questione di donne e uomini, sebbene una grande differenza ci sia: le donne intuiscono, vale a dire colgono l’essenza senza necessariamente avere bisogno di una mediazione logica, l’uomo scompone razionalmente e ricostruisce con logica. Non ci credete? Qual è il prototipo della lite donna-uomo? Lui le dice: non l’hai capito? Lei risponde non te ne sei accorto?
Chiarito questo ciò che intendo condividere è la difficoltà a penetrare e fare proprio, diciamo comprendere finché qualcuno non propone un vacabolo più adatto, ciò che gli altri provano. Perché provare è molto più che pensare o sapere: quest’ultimo è atto razionale, il primo mescola anche, in dosi abbondanti, il cuore.
Capita che in qualche angolo del web si discuta da tempo, dopo una iniziale fiammata con toni piacevolmente pacati e rispettosi, di dolori e letteratura. E c’è un grande sforzo da entrambe le parti per capire ciò che gli altri pensano e perché. Eppure, sebbene sempre con garbo e delicatezza si proceda per piccoli passi sempre più vicini al contatto, sembra impossibile raggiungere quel punto che non è compromesso, ma comune verità.
E non perché la verità non ci sia, ma perché sta così fuori dalla razionalità che non c’è mente che la possa raggiungere : il dramma è che neppure cuore la può cogliere e comprendere. Perché? Perché nessun cuore ha vissuto e sentito ciò che gli altri hanno sentito e vissuto e sofferto. Ho ben da dire che capisco il dolore altrui, ma non posso farlo mio, non posso provare ciò che atri hanno provato, perché questo passa dall’esperienza, dalla vita. E la vita è meravigliosamente unica e irripetibile. E al contempo questi altri, che hanno sofferto sofferenze profonde e diverse, non possono, anche se lo vogliono e si sforzano, di capire questa attuale sofferenza, questa dignità, perché ciò che hanno vissuto impedisce loro, fisicamente, direi, di sentire ciò che sentiamo noi perché comunque, sempre, sovrapporranno i loro piano all’altro. Senza malizia, senza arroganza. Solo per via del cuore.
Ed è cosa buona questa, perché vuol dire che un cuore c’è e che ama e che quindi soffre, e vive e non scivola sull’esistenza inebetito e diluito, quasi scolorito in un pallore che più che putrefazione ricorda l’assenza.
Ed è anche bello che ci sia questo sforzo di venirsi incontro per scambiare una profondità che appaga e arricchisce.
Fosse sempre così la vita, saremmo tutti più accesi e più vivi- Così vivi da gustare ogni singolo istante.




2 commenti:

  1. Sicuramente essersi trovati nella stessa situazione può aiutare meglio a capire gli altri che ne stanno vivendo una analoga. Io in genere provo ad immaginare pensando: "Come mi sentirei se mi trovassi in questa situazione?" Magari un po' mi avvicino, o almeno ci provo, tenendo sempre in conto che è molto difficile comprendere ciò che non si vive veramente. Allo stesso modo ci sono persone che mi danno consigli in una certa situazione e poi vedo che, quando capita a loro, si comportano in modo completamente diverso. Io credo che siano sinceri quando esprimono certi consigli, ma evidentemente, quando tocca a loro, si rendono conto che la situazione è ben diversa da quanto si poteva solo immaginare.

    RispondiElimina
  2. saggezza molto concreta Caterina, grazie!

    RispondiElimina