Quando i cinquant’anni sono stati raggiunti e superati con la velocità del suono di una sirena arrabbiata, tre sono le possibilità che rimangono all’uomo che non vuole rimanere ad attendere l’impatto indifeso e inconsapevole: farsi l’amante, farsi una macchina rossa, scrivere un blog. Dato che mi state leggendo (davvero? Mi state davvero leggendo?) avete compreso che ho scartato le prime due ipotesi. E per scelta volontaria e creduta, non certo forzata.

Ma che cosa e perché scrivere? Condividere, o l’illusione di farlo, aiuta spesso a sentirsi in compagnia di fronte alla piccole battaglie della vita: quelle grandi, si sa, le si può affrontare solo in compagnia di se stessi, senza nessuno scudiero o cavaliere al proprio fianco.

La prima delle sfide e quella che affettuosamente potremmo definire di san Giuseppe, che di fatto nomino mio speciale e personale protettore confidando sulla sua ironia e bonomia. In che cosa consiste questa sindrome? Nel sentirsi ovviamente il più imperfetto della famiglia dovendone invece apparire la guida salda. Non che con questo voglia affidarmi a una melliflua umiltà fasulla, l’autocompiacimento di sentirsi negare la denigrazione e gustare così una vanitosa ricompensa per la propria maliziosa modestia. Affatto. Lauto compiacimento può derivare solo dalla concretezza. Non che non sia vanitoso, tutt’altro: la vanità è sempre in agguato, come ben sa il diavolo impersonato da Al Pacino nel mondo degli avvocati.
Gli è che essendo proprio vanitoso e anche intelligente, so bene che l’ambizioso deve attingere a piene mani all’umiltà: per crescere, ambizione che può essere anche nobile e saggia, bisogna capire dove migliorare. E per capirlo non c’è che l’umiltà.
L’ambizioso vanesio e superbo farà una brutta e rapida fine.

Quindi qui sto: con una moglie tendente alla perfezione, pur con difetti marginali che provocano in me tanto irritazioni quanto ammirazione per la loro trascurabile banalità; con tre figli che, come recitano brutti film, hanno preso maggiormente da me i difetti, e quindi non posso accusarli di una eredità che ho trasmesso loro; con un lavoro che amo e che ogni mese mi sfida sempre di più, aiutandomi a non fare mai mia la sicurezza.
Di che scrivere dunque?

Della precarietà, della inadeguatezza che mi rende comico a me stesso, specchio delle cose che ho appreso e che rivedo, con squarciante veridicità, nel mio quotidiano.

venerdì 13 luglio 2012

Le onde del destino


Arrivano a ondate: concentriche e violente. Non capisco bene. Mentre meno te le aspetti. Salgono su e t’arrivano subito al cervello. Passando dal corpo. Sempre le stesse. Nel medesimo ordine. Che sembrerebbe facile dominarle.
Ma da solo è difficile.
Prima la sensualità, che le immagini te le spara con voluttuosa velocità, un’arroganza lieve, quasi decadente, avvolta di delicata indulgenza: ma sì che non c’è nulla di male! Lasciati andare, comincia a pensare e poi, chissà mai, arriverà l’occasione: la battura, la parola lasciata scivolare… E tenere le redini diventa eroico.
Ci vuole cercare con lo sguardo la Madonna per chiedere aiuto, e preghiere, e suppliche e allora il cuore un po’ s’acquieta e domina e rigetta.
Allora arriva la rabbia, il rancore: sempre le stesse facce, quelli che t’hanno fregato, tradito, truffato e tutti e tre insieme, insultato e deriso e allora la mano si alza, si arma e ti vedi già lì non a colpire, ma ad esercitare giustizia e questa è la tentazione peggiore, fingere a te stesso.
E quando, con l’aiuto di Lei, resisti e superi allora ecco la tentazione finale: ma come sono stato bravo, eh sì, io sì, io che sono bravo, io che merito… come diceva quel diavolo di un avvocato con la faccia dl Al Pacino: la vanità è il mio peccato preferito.
Arrivano ad ondate, sempre uguali, sempre le stesse, con sconcertante monotonia, il che dovrebbe renderle più semplici da affrontare, queste tempeste dell’anima, che sembrano sempre più violente, che non abbiamo ancora resistito fino al sangue, e hanno sempre la medesima faccia.
Arrivano ad ondate alte come tsunami. Per questo per sopravvivere devo salire sulla barca. Di Pietro. 

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