prossimo post sabato 14 aprile
Vorrei essere stato io. Vorrei averlo ucciso io. Almeno la
facevamo finita e non se ne parlava più. Invece no. Non solo non sono stato io,
ma neppure so nulla di ciò che è successo. Non basta. Non mi credono. Si sono
convinti. E non riesco a fargli cambiare idea. Perché ogni parola, ogni gesto,
ogni colore loro lo incastrano nel loro castello. E tutto li conferma nella
loro devastante ipotesi. Non so perché. Qualcuno all’inizio ha avuto questa
idea. E se ne è innamorato al punto da diventarne prigioniero. Di più. E’
diventato lui. Si è insinuata lui, lo possiede. E quindi nulla potrà mai fargli
cambiare idea. E le cattive impressioni, si sa, fanno presa. Crescono più in
fretta perché alimentate da quel vento tiepido e calmo che vive dentro ognuno
di noi. Non so come definirlo, non credo sia invidia. Di che poi? Del mio misero
lavoro? Della mia vita insulsa che cercavo di rendere meno segalina ad ogni
alba? E che spegnevo nel sonno, a volte piatto, altre profondo, il più delle
volte sensibile e sudato, ogni santa notte? Non è invidia. E’ quella voglia di
fare del male, di non credere. E’ la sfiducia nell’uomo. perché ognuno si sente
sempre vittima. E mai carnefice. Curioso, ciò che più invochiamo dagli altri, è
proprio ciò che meno siamo disposti a concedere: sia che si tratti di pazienza,
sia di pietà, sia di comprensione. Ho letto da qualche parte che la carità più
che nel dare consiste nel comprendere. Parole sante. Ma anche atroci. Perché
così come si scolora la carità nell’elemosina, si avvelena la comprensione
nella maldicenza. Ammantandola di buona fede si pretende di toglierle l’acido.
Ne ho sentiti tanti. Nessuno osava accusare. Ma va! Piuttosto millantavano
misericordia, pretendendo di addolcire il messaggio con la falsità di
espressioni come “pover’uomo” “si dice” “ma ti pare vero che..”. E godevano di
questa loro capacità di velare. E così, è scivolata via anche la dignità. E ho
iniziato a maledirmi per non avere commesso il reato. Perché allora sì che
avrei riconquistato il loro rispetto.
Sarei salito in cattedra, avrei spiegato e rivendicato e affermato. E in
questa rivendicazione della mia libertà, sarebbe sorta la denuncia della
società. Allora mi sarei assicurato la loro pietà. Forse anche di più. La loro
ammirazione. Sarei sceso nelle aree televisive. Il mondo sarebbe stato mio.
Rimpiango la codardia dell’onestà. Perché mi ha ripagato con l’espulsione dalla
vita. E non c’è stato altro che ripiegarmi, mettermi via, insinuarmi in un
cassetto dell’esistenza, dove solo la naftalina può proteggermi dalle tarme e
dai tormenti. Un oblio fatto di fughe, di volti chinati, di passaggi
nell’ombra. E non posso neppure rompere i confini di questo paese perché
l’indagine non me lo consente. Come se non avessero già sdrucito tutto.
Squartato ogni particolare. Come vorrebbero fare di me. Ho già confessato. Ma
il crimine che ho vomitato fuori non è quello che interessa loro. Né alla gente
che aborre di vedere negli altri le miserie che cercano di nascondere a se
stessi. Non ci sono più le mezze calzette di una volta: ciò che la gente vuole
sono i grandi trionfatori per ammirarli ed invidiarli, racchiudendoli in un
odio puro, senza limiti; oppure i grandi peccatori, per disprezzarli e
rialzarli ammanendo senza riparmio la propria misericordia e mostrandosi così
più grandi di coloro che giudicano. E sto qui, ad aspettare che la morte, che
ha già devastato il fisico, finisca per penetrare nell’animo e lo spenga del
tutto. A meno di trovare, da qualche parte, in qualche sguardo, una luce che
parli di un riscatto che possa ridarmi non dico l’onore, ma almeno il rispetto
di me stesso.
Ah! Ho dei dubbi.
RispondiEliminadubbi a che proposito? Interessante: la narrativa arriva al suo scopo se suscita dubbi e dibattiti...
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