E chi l’avrebbe mai detto? Incontrarti qui dopo tutti questi
anni? Indecisi se fingere di non riconoscerci o fingere di provare interesse,
quasi gioia, abbiamo optato per fingere di desiderare un drink insieme.
Daiquiri. Anzi Dàiquiri, come dicono qui con sfrontata ostentazione, solo
perché tra le ville squillanti di colori che tempestano Key West ce n’è una
appartenuta a Hemingway. Il corpo si sfa, quando il dolore di vivere viene
lenito solo da ciò che può gonfiarlo, solido, liquido o gassoso che sia. Vedo
che questa mia convinzione deve arricchirsi di altre interpretazioni, che se
allontanano la colpa, le responsabilità avvicinano, distinguendo per eccesso di
viziosità la prima dalle seconde, per le quali solo la piena avvertenza e il
deliberato consenso hanno valore. Eppure ricordo ancora l’ultima volta che ti
vidi, senza sapere che sarebbe stata l’ultima, perché l’avrei dipinta con più
enfasi, con più poesia, con suoni pastello perché si imprimesse bene nella mia
mente. Ci amavamo. O meglio, c’è stato un momento in cui ci siamo amati. A modo
nostro. Dovrei chiedermi se anche tu amavi me, ma so che incontrerei una
speculare domanda nella tua storia personale.
Eravamo giovani? Lo si dice sempre. E’ un alibi per evitare
di soffrire richiudendo vecchie ferite che ancora suppurano. Ricordo ogni centimetro quadrato delle
vie nelle quali la nostra storia è rimbalzata, e chissà perché non riesco a non
visualizzarle se non sotto la pioggia, o comunque un cielo grigio e invernale.
I colori si spengono, senza negare le cose, ma ricoprendole di fuliggine. La
quale non so se stia nella mia memoria o nelle nostre vicende di un tempo.
Ricordo con lucida crudeltà il tuo viso quando andammo dal veterinario a
riprendere il tuo gatto, che avrebbe dovuto sostenere una operazione di routine
per renderlo appassito, e invece lui ti mostrò solo il suo freddo cadavere
dicendo “c’è stato un problema”.
Ricordo che fui sommerso da sentimenti spigolosi e
contrastanti: rosso, per la paura, la vergogna, la passione; viola come il
dolore, la stanchezza, l’irritazione; marrone quasi la speranza di poter
avvolgere in un abbraccio quel tuo patire e scioglierlo dentro di me
rilasciando dolcezza e lievità. Scoppiasti a piangere ripetendo il suo nome e
solo alla fine, in un istante di contenuta debolezza, cercasti rifugio tra le
mie braccia, ma trattenendoti, come intimidita più da te stessa che da me, che
peraltro provavo così tanto compiacimento che non avrei saputo trarre vantaggio
dalla situazione. La goffaggine della giovane età a volte è una difesa che la
vita erige per evitare conseguenze devastanti.
Poi sei scivolata via. Non ho sofferto. Eri già dietro altre
vicende, altri dolori. Mi avviavo verso quel cammino solare e brezzolato che
sarebbe stata la mia vita. Con un’altra donna. Che ho amato fino al giorno in
cui mi ha chiesto conto della promessa che mi aveva estorta: lasciare che fosse
lei la prima ad andarsene. Non posso parlarti di quegli anni, così tanti da
sembrare pochi, un tratto di penna sulla pagina giornaliera di una agenda.
Perché quando ami non è mai abbastanza il tempo: né in altezza, né in
profondità, né il lunghezza.
E quindi ora aspetto, il momento di riunirmi a lei, senza
fretta, senza dolore, abbandonato in una volontà che non è mia. Non lo ammazzo
questo tempo, lo vivo: certo ricordando, certo immergendomi nelle emozioni del
passato, ma con la certezza che non posso lasciarmi vivere, non sarebbe giusto.
E se sono qui oggi in un certo senso è per onorare la sua
memoria, non per celebrare una malinconia o peggio desiderare il passato.
Per questo mi ha colpito rivederti qui, è come se il tempo
si riavvolgesse su se stesso, senza chiedermi di ingurgitare gli accadimenti di
un tempo, o peggio rimetterli in scena come una vecchia band che pateticamente
torna insieme per compiacere se stessa. E’ come un messaggio che rimanda al
senso nascosto i fatti già avvenuti e che non avevo compreso, un dono per darmi
una seconda opportunità di capire.
Metto le mani avanti: non provo nulla per te, se non quella
stemperata amicizia che si annoda a ricordi comuni, anche se stinti e disciolti
negli anni che li seguirono. Forse non ricordiamo neppure gli stessi colori, o
i suoi, o la declinazione delle parole. Eppure mi fa piacere vederti.
Affogo nel daìquiri il mio dolore? No. Confermo. Non provo
dolore di vivere. Forse tu, forse questo ho letto nei tuoi occhi. Forse c’è
stato un tempo, appena dopo, in cui ho avuto bisogno di fisicità per soffocare,
per dare senso, per mettere in ordine: invece che buttarmi sull’agire, mi sono
messo a mangiare. Capita. Ma tu? Che bisogno avevi? Di quale colore è il tuo
dolore? Se c’è? O la tua gioia? Avrai tempo per raccontarmela fino in fondo.
Sono l’uomo che ascolta. Sorseggia con calma il tuo drink.
Il passato è passato, è bello ricordare ma è impossibile riprodurre copie di emozioni e sentimenti che sono stati. Ed importante è non ammazzare il tempo, equivale a non vivere, ma se perdi qualcuno è più facile lasciarsi andare. La mamma di una mia amica, che è ancora relativamente giovane ed ha perso improvvisamente il marito 4 anni fa, è sospesa in una sorta di limbo.
RispondiEliminaps oggi è un giorno speciale per Violetta...
Spero di non trovarmi mai nel limbo...
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