Non è per rabbia o per disperazione. No. Non c’è rivincita
in ciò che faccio. Non saprei a chi indirizzarla. Non che la mia vita sia
sempre corsa via serena e lieve. Non dico questo. Non posso però lamentarmi,
grandi sofferenze non hanno solcato i miei orizzonti. Non ho provato dolori
intensi, quelli che scuotono l’anima, quelli che ho visto negli occhi di alcuni
amici, amici poi, parola troppo nobile e ricca per descrivere quelle conoscenze
che mi sono fluite intorno. Non ho avuto amici, ecco. Non ho conosciuto che
cosa l’amicizia significasse, perché non mi è stato concesso di soffrire.
Non l’hanno fatto per crudeltà,
tutt’altro. Non ha pensato che a me e alla mia felicità, di questo sono sicura.
Non hanno forse ritenuto che privandomi della sofferenza, mi stavano privando
della vita stessa. Non gliene
faccio una colpa, credo che semmai potrei solo riconoscere un eccesso di amore,
ma di amore grezzo, superficiale, per quanto profondo possa essere stato,
imperfetto. Non riesco a spiegarmi: come ho potuto scrivere che l’amore che mi
è stato rivolto è definibile come profondo e superficiale al tempo stesso? Non
trovo le parole esatte, poiché in realtà è proprio così: profondo, rosso,
sonoro come un sassofono che avvolge in una atmosfera densa e fumosa, ma non
sporca e unta, così intenso da togliere il fiato, intenso fino all’oppressione,
ingordo; superficiale, verdino, squillante come un clarino, un po’ stonato, che
trilla senza ritmo, fuori misura, più per piacere a sé che per accordarsi alla
sinfonia. Non capisco come possa essere successo, ma solo adesso che, mentre
cammino su questa spiaggia che sembra non finire, deserta, alla luce bassa
dell’alba, adesso che per la prima volta metto ordine non ai miei pensieri, che
ho sempre conservato piegati e profumati ognuno nel loro cassetto, ma ai
ricordi, che mi inseguivano come sciami d’api e io li sfuggivo, per proteggere
ciò che volevo mi raccontassero, adesso che rifletto con logicità e metodo,
adesso che analizzo, separando le emozioni dal loro significato, adesso che
voglio capire questo amore che cosa è stato in realtà, come ha cambiato la mia
vita, a chi è stato realmente rivolto, adesso mi viene voglia di piangere, e
continuo a camminare.
Non ho che conosciuto la mediocrità, ecco. Non ho conosciuto
un vero amore. Non amavano me, ma loro stessi in me. Non rappresentavo che una
proiezione del loro amore, un oggetto che riflettesse quel senso, evidentemente
inappagato fino a quel punto, di un affetto profondo. Non cercavano me, ma loro
stessi, nel riflesso della mia vita, nello specchio che la mia vita rendeva
loro. Non volevano soffrire e mi hanno rubato il dolore. Non volevano
infelicità e mi hanno privato della mia felicità. Non cercavano una figlia,
desideravano una estensione fisica al loro egoismo, che paradossalmente
convergeva e si coagulava in quell’esserino misuscolo e indifeso che ero io.
Non sono del tutto onesta a dire questo, anche solo a
pensarlo. Non potrei mai accusarli senza averli ascoltati. Non posso però
tornare. Non voglio. Non voglio ascoltare la loro difesa, perché potrebbe
essere un fallimento. Non per loro: per me. Non potrei sopportare di sentir
confermati, dalle loro parole, dai loro occhi, dai loro gesti, i miei più
laceranti sospetti. Non mi resta che camminare, senza voltarmi indietro, senza
sperare nulla, fino a quando non troverò la speranza qui, sulla sabbia, in
qualche modo, in qualche gesto, in qualche oggetto, e capirò che sì, qui c’è un
nuovo inizio.
Sì, posso ricominciare e forse allora potrò anche tornare
indietro. Sì, so bene che sto facendo loro del male, sto facendoli soffrire,
forse di un dolore che non hanno ancora provato. Sì, lo so, e so che anch’io
sto provando per la prima volta questo dolore, adesso leggero e distante, come
una sirena in lontananza, come una nave all’orizzonte, ma che avanza, e si
ingrandisce e diventa più acuto e livido, viola, come i bordi di una taglio
suppurato: non ne ho paura, anzi l’aspetto. Sì, l’aspetto perché è di questo
che ho bisogno, che abbiamo bisogno, per uscire dalla finzione di una vita
apparentemente perfetta, e perfettamente spenta, insulsa, scolorita, tiepida,
indistinta, come un disegno fatto col gesso sul selciato che venga lentamente
lavato via da una pioggia allegra e squillante.
Sì, posso tornare un giorno, quando sarò arrivata in fondo
alla mia strada e avrò trovato ciò che di me stessa ancora non conosco e ho
paura a conoscere, quando mi sarò messa alla prova e avrò temprato il mio
patire, tornerò e amerò come non ho mai amato.
Perché allora potrò aprire le braccia e stringere tutti in
un amore nuovo e vero.
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