Nella
vita si combatte e si fa fatica. Sempre. E’ il gioco. La regola. Senza sforzo niente
premio. Senza salita niente vetta.
Cerchiamo
di farci sconti, ma la natura non perdona.
Specie
quando la fatica non è fisica, dove la scorciatoia si può trovare. Ma lotta
d’anima, quella di Giobbe, quella per strappare il cielo, che infatti è dei violenti,
di quelli che si impossessano di se stessi con una battaglia senza omissione di
colpi.
Così se fuori tutto sembra sorridente,
liscio: tramonto d’inizio estate, quando i colori virano dal pastello al sangue
senza ferire; baia senza vento; molo che confonde l’orizzonte. Ecco dentro
invece c’è tempesta, incendio, devastazione. Lotta.
Non
credevo di provare un odio così profondo. Non c’è bisogno di dire perché o per
chi.
Basti
sapere che si tratta di un livore acceso, rancoroso e continuo, come una bestia
che rosicchia, un tumore che gonfia e si espande, una goccia che crudele
tortura la pietra e la scava, acida, urticante.
E
produce ribrezzo e rigurgiti, incubi viola in cui le ossa si spezzano, i
cazzotti affondano con soddisfazione, le bastonate sfondano, i calci
rimbombano. Non credevo. Tormento continuo, che ti afferra quando meno te lo
aspetti. Ti giri sorridente e invece di quello che credevi, vedi questa scena
da fight club, da vecchio horror alla darioargento, da periferia moderna.
E
non dà neppure soddisfazione perché al primo dulcore segue l’amaro, aspro e
crudo.
Ma
il sacco va svuotato, la valvola deve sputare, il veleno uscire perché la
ferità sia pulita e possa sperare di guarire.
Così
scrivo, e affido questo rancore alla pagina, e all’angelo che la custodisca, la
bruci, la disperda sul web in modo che rimbalzando da un lettore all’altro
perde la forza, diventi letteratura. Che non fa più male.
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