I racconti del giovedì
Se solo sapessero. Invece ti guardano di sghembo. Fingono di ignorarmi. Non sono neppure capaci. So bene che cosa sia l’indifferenza, quella cruda, acida, che ti penetra nelle ossa come nebbia fredda e umida. E ti lascia solo. Legato solo alla tua disperazione come un àncora, che ti tiene a galla grazie al rancore. Vivi per la vendetta. Qui invece, è uno scherzo vedere questi turisti che scivolano atterriti dai miei gesti lenti, che loro prendono per stanchi e folli, simulando disinteresse, mentre invece sono rosi da una curiosità malsana. Ormai non posso che amarli per questo, perché questo è il mio compito ormai, la mia strada di espiazione. Sono l’uomo che mette ordine. In ogni cosa. Rassetto la mia panchina ogni sera. Raccolto le carte cadute dalle tasche dei viaggiatori cupi che salgono sugli autobus per rientrare a casa, e i sogni di coloro che partono immaginando una vita migliore. Sapessero che ciò che bramano come ossigeno è caduto qui, sull’asfalto unto e ardente del piazzale, non sorriderebbero appoggiando il viso al finestrino. Non perché io non creda che il futuro su può cambiare. No. E che i loro sogni sono così banali, sciatti, lenti che non li raggiungeranno mai. Parola di Firmino. Perché io prima di loro ho sofferto questa delusione. Sono scappato, non inseguivo il successo, inseguivo la serenità, la libertà dal crimine commesso. Inseguivo il perdono, che lo Stato mi aveva attribuito, ma il popolo no. Nessuno. Come potevano perdonare il mio crimine? Un errore che aveva provocato la morte di decine di persone. Un piccolo errore: misurabile in 28 millimetri. La distanza che separava tra loro due bottoni. Uno scambio ferroviario. Il suono dello scontro assorda ancora oggi le mie orecchie molto più dell’odio che ne è seguito. Il primo fu il mio per loro: nell’assurdità della mia colpa rinfacciavo a loro la morte come una salvezza. Loro stecchiti, io arido ma vivo, a portare per la vita, ma la si poteva chiamare vita?, quel segno marchiato sulla pelle fin dentro l’anima. Come avrei voluto essere al loro posto! Non capivo. Poi venne l’odio dei parenti: non ne risparmiarono neppure una goccia nel donarmelo. Li capivo. Non potevo contraccambiarlo. L’avessi fatto forse loro mi avrebbero perdonato. Invece restavo lì, al processo, a testa bassa. Cercavo un segno, una traccia, per quanto esigua, per dare senso. Poi venne l’odio reciproco con le persone del mio paese: a loro non avevo fatto torto se non quello di essere nato lì. Ma era troppo grande perché me lo perdonassero. Io glielo restituivo, quel livore, freddo, secco, viola, quasi razionale, perché mi sentivo tradito. E fuggii. In treno. Divertente vero? Come un killer che per scansare il destino si affidi alla pistola. Il boia e la sua forca. Fu quando arrivai qui che compresi. C’era una strada. Fu un incontro: non posso dire che mi restituisse la vista. Non perché non l’avessi persa. Perché non l’avevo mai avuta. Più che cecità era miopia: non vedevo più in là di me, della superficie, di ciò che per me era importante. E lui mi mostrò che cosa c’era dietro, fu come voltare la carta, rivoltare il guanto. Sguainare la spada. D’un tratto vidi tutto più scuro: perché la verità va ricercata. Solo allora ti si dona. Ne conobbi la radice, la formula, il trucco. E capii che il mio compito era ricostituire l’ordine che il mio crimine aveva infranto. Dovevo ribaltare l’entropia. Riportare la quiete nei cuori, di tutti, senza scelte. Come senza scelte avevo assassinato centocinquantatre persone quella sciagurata notte.
Se sapessero. Forse invece che scivolare via, impettiti e distratti, mi degnerebbero almeno di uno sguardo d’odio. Che io saprei ricambiare assorbendolo e sottraendolo loro, per negare il gusto della rivalsa, del ricambio. Anche questo è mettere ordine.
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