I racconti del giovedì
Facile parlare per Lui. Non sbaglia mai. E non ti dà
respiro. Ti insegue ovunque. Anche sopra il mare. E ti tormenta finché non fai
quello che vuole. E sì che glielo avevo detto: tanto si sistema tutto. Tanto
poi ti lasci commuovere. Sei tenero tu. Vuoi fare il duro. Vuoi ricoprirti del
manto della giustizia. E quella storia degli occhi bendati e della bilancia che
fa tanto marketing. No. E’ tutto un trucco. I tuoni, i rombi. Gli scuotimenti
della terra. Sono effetti speciali. Magari quello che vorresti veramente
essere. Ma non puoi. Non ci riesci. Sei amore, non te lo ricordi? E così alla
fine, come avevo predetto, quello che ha fatto la figuraccia sono stato io. Per
fesso mi hai fatto passare. Andare in giro a minacciare sciagure. Un profeta da
strada. E se non mi hanno deriso prima, lo faranno adesso.
Mi hai ricattato e non ho potuto dirti di no. E che cosa ho
ottenuto? Il successo. Sì, paradossalmente mi hai fatto conoscere il trionfo.
Nella sconfitta. Hai ottenuto il risultato che volevi, facendomi minacciare
stragi. E dove poi? Proprio nella città più torbida, il covo degli assassini,
dei predatori. Un popolo senza pietà, sguaiato, imbattuto ed imbattibile. Il
cui solo nome getta nel panico. E tu l’hai piegato con l’amore, non con un
esercito più potente. Che avresti avuto solo schioccando le dita. E che avrebbe
raso al suolo loro fino alla centesima generazione.
Invece hai mandato me. Riluttante, timoroso, ma sì diciamolo
anche: codardo. Soprattutto irritato. Perché sapevo già come sarebbe andata a
finire: tu sugli altari, io qui, sotto questo ricino rinsecchito a maledire la
mia vittoria. E che cosa ci ho guadagnato? Una fuga precipitosa, un soggiorno
indesiderato sott’acqua, tre giornate di cammino nell’inferno e poi questo
caldo secco, senza vento. Questa infinità bianca e infuocata che spazza via
dall’anima ogni desiderio non per affogarla in un appagamento dissetante, ma
anzi proiettandola in una disperazione accecante. Non la luce nella quale
desidero un giorno riposare, ma un crudo anticipo di tutte le sofferenze di
Giobbe. Perché anche con lui non è che ti sei comportato da galantuomo,
diciamola tutta. Gli è andata peggio che a me.
E qui prigioniero di questa fornace, devo anche sorbirmi i
tuoi discorsi, le tue scuse, i tuoi pretesti? Non tuoni mica, qui sotto questo
cielo così trasparente e piatto da spaventare. Non urli come facesti con quello
al quale togliesti tutto per un gioco, per metterlo alla prova. No. Con me
sussurri, con questo tono così morbido, paterno, anzi materno. Fai domande.
Mostri come l’amore può perdonare tutto.
No. Così non mi piace. Proprio da questo fuggivo. Da questa
misericordia infinita. Da questo abbraccio che è sempre pronto e che chiede
solo di lasciarsi andare. Da questo perdono che non si rifiuta mai, ma che può
essere solo rifiutato. Perché tu non ti neghi mai, siamo noi che possiamo
negarti.
Io volevo vedere il fuoco dal cielo. Volevo vedere il
terremoto. Il suolo squarciarsi e ingoiare palazzi e animali. Volevo vedere
fumi salire dalle viscere della terra e bruciare. Oh, sì. Arderli, con il
medesimo gusto con il quale i loro soldati hanno violato case e donne delle
città che hanno raso al suolo, devastando l’anima dei sopravvissuti, così
violentati da desidera la morte piuttosto che il ricordo.
Volevo vedere i tuoi angeli scendere e sterminare i sopravvissuti
con la paura prima ancora che con i loro dardi. E il fuoco purificare ogni cosa
lasciando solo cenere su questa Ninive maledetta.
Volevo vedere gli innocenti perire insieme ai colpevoli,
maledicendoli per questo e caricandosi così, in punto di morte, di quel peccato
di odio che li aveva inseguiti per tutta la vita senza mai raggiungerli. Così
che anch’essi sarebbero stati dannati.
Volevo vedere trionfare la giustizia, strumento del mio odio
più viscerale. Volevo vedere il sangue, che avevo predetto per incarico tuo,
quello che avrebbe lavato gli scorticati ricordi delle loro vittime, facendoli
affogare nel livore acceso della rivalsa. Perché se non serve a soddisfare la
tua sete di odio per i persecutori, a che serve avere un Dio personale? Che me
ne faccio di un Dio di tutti, che tutti ama, tutti perdona, tutti accoglie?
Eppure così sei fatto tu, e anche adesso se qui a
tormentarmi con il tuo amore. Lasciami in pace, lasciami il tempo per accettare
questo mio successo, questa mia vittoria: questa predicazione che ha ottenuto
il suo scopo, che ha convertito, che ha condotto al pentimento. Che mi ha così
deluso. E per questo mi sta
purificando da dentro.
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