Sulle
piccole cose verremo giudicati, sugli atti ai margini, sulla periferia della
vita, su lke briciole che, quasi inavvertite, lasciamo cadere e che
dimentichiamo subito, quasi con irrequietezza.
Perché
la carità, quella dell’inno paolino, risplende di più quando la consapevolezza
è assopita, quando è il pilota automatico ad essere inserito: perché è lì che
parla il cuore della sua pienezza, è lì che si vede quanto i profondità è scesa
la fede, se è diventata atto agito oltre la razionalità, quasi istinto.
Come
nei grandi santi dove cedi sempre in traslucido, nella trama, la figura di quel
Cristo del quale vestono i panni, come l’ombra che si stempera pallida al
crepuscolo e all’aurora, ma c’è e solo sotto il sole cocente si staglierà
squillante.
Così
nella mia sono gesti minimi che hanno lasciato solchi profondi, frasi cadute
dal desco, smozzicate.
Ricordo
una insegnante di religione delle elementari, forse la terza, 1968-69. Una
meteora. Eppure ricordo il suo vis. E una frase. Che parla di abbracci. “se
saremo stati onesti”, diceva, “lo scopriremo nel momento in cui affronteremo
Dio, se gli correremo in contro a
braccia spalancate o se terremo la testa bassa timorosi. È questa la
differenza”.
Ecco:
non ricordo neppure come si chiama. Ma spero di correrle incontro per
abbracciarla quando saremo nella luce.
E
poi il film scorre, ero già universitario, ad una partita di basket, non
ricordo quale fosse la denominazione dell’Olimpia ancora. Ricordo solo questo:
un’azione concitata, una mossa eccessiva da parte di un avversario su un
“nostro” giocatore, il pubblico rumoreggia, io scatto in piedi, trascinato da
quelle urla, e grido “bastardo” con viso credo distorto e acceso. Una frazione
di secondo, abbasso lo sguardo e incontro quello stupito e ferito di un bambino
–dieci anni?- che seduto davanti a me mi fissa turbato. Ecco quello sguardo,
durato pochi millesimi, me lo porto ancora dietro, che mi ha ustionato l’animo.
M’è sceso giù fino al fondo della feccia per far rifluire come un conato
un’amarezza acida, una vergogna atavica, un dolore purulento. Avrei voluto
mettermi in ginocchio e chiedergli perdono a quel ragazzino, ma il processo di
espulsione è durato a lungo e dura ancora oggi se quella è l’immagine che mi
dipinge la vergogna spalmandola su ciò che sto per fare e riesco a trattenere
all’ultimo istante, come un gesto interrotto, abortito, un equilibrio precario.
Un’immagine sfuocata eppure in fiamme, che guida e ammonisce. Ancora oggi mi
interrogo su che cosa avrà lasciato quella maschera che per un istante a
rivelato non forse l’odio –non ne avevo- ma la sordida passione, l’incapacità
di fermarsi e distaccarsi da una massa che travolge e porta a valle. E mi
auguro che non si sia ancorato nell’animo suo, ma l’intensità di quello sguardo
mi fa temere il contrario.
E
ognuno di noi di semi, gettati e raccolti, minuscoli, intrufolati nelle pieghe
della vita, avvolti in parole smozzicate, disciolti in istanti congelati
proprio perché puri atomi di tempo, frammenti primi, non scomponibili
ulteriormente, semi così ne abbiamo piene le tasche.
Su
questo saremo giudicati.
Finchè avremo una coscienza e saremo in grado di scegliere tra il bene ed il male, non dovremo avere paura di essere giudicati. La punizione ce la siamo già impartita da soli, con il rimorso e la vergogna per gli errori commessi, anche se involontariamente.
RispondiEliminaVerissimo Caterina, l'importante è avere questa lucidità.
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