Ti
siedi o ti inginocchi, non ci fai caso, poi all’improvviso, quando giri lo
sguardo forse per cercare una maggiore concentrazione, forse per scacciare un
pensiero che si insinua, ti invadono il campo visivo, sommessamente però, non
come una luce che squilla.
Inchiodata
come per fissare il tempo che gratta e soffia via, una targhetta sussurra un
nome. Talvolta solo una sigla. In memoria. Doppia: dell’offerta fatta alla
parrocchia e della persona che, come si dice, non c’è più.
Qui.
Non c’è più. Intendo. Non è visibile. Perché c’è. Ancora. Eccome.
Ecco.
Se ci fermassimo con la mente, se capissimo veramente che cosa è quel
rettangolo di ottone o plastica, saremmo percorsi da un brivido, quello della
vita che sorride e accarezza.
Perché
quelle sono esistenze, che magari si sono sedute sulla medesima panca, hanno
pregato lì, sognato lì, imprecato lì, pianto lì.
E
sono ancora accanto a me.
Perché
dobbiamo essere capaci di far parlare la realtà muta, quella che fa da sfondo,
da colonna sonora, quella che sussurra come lieve brezza, che sta nascosta,
ombra, anzi penombra, pastello, fischio lontano.
Per
gustare la vita, collegare i punti, capire il disegno, andare in profondità e
apprezzare il senso.
Prima
che diventiamo anche noi targhette sul banco.
Saranno gli anni che passano a farci pensare così tanto al passato? I giovani guardano sempre avanti, rivolti al futuro, noi invece cominciamo a guardarci indietro, ripensando a chi si era seduto nel nostro banco, era vissuto nella nostra casa, aveva percorso le stesse nostre strade...E, inconsciamente, speriamo di poter essere, a nostra volta, un giorno ricordati.
RispondiEliminapenso che tu abbia colto proprio nel segno...
RispondiElimina